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LA MIA AFRICA
(OUT OF AFRICA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 marzo 1986
 
di Sidney Pollack, con Meryl Streep, Robert Redford (Stati Uniti, 1986)
 
Ispirato alle memorie africane della scrittrice danese Karen Blixen (1885-1962), La fattoria africana, il film è innanzitutto un ritratto di donna. Sereno, limpido e forte come le pagine dalla quale è tratto. Significativo e moderno, perché quel periodo di tempo che va dal viaggio in Kenya della scrittrice, nel 1913, al suo ritorno in Europa nel 1931, non è certamente ancora maturo a quel processo di emancipazione femminile universalmente accettato, qualcuno dirà accondisceso oggigiorno.

Meryl Streep, che è la più brava delle attrici del cinema americano, conduce questo itinerario più morale che fisico con una sensibilità straordinaria: il film si organizza sull'evoluzione del suo personaggio, vero cardine, umano e poetico, del racconto. (Assai meno efficace, tanto da sembrare più un capriccioso piantagrane che un romantico solitario alla ricerca di assoluto, Robert Redford: ma la colpa è della sceneggiatura, che non spiega a sufficienza i suoi comportamenti).

Un racconto. In questo senso il film è sapiente e commovente. E sicuro raccoglitore di Oscar. Ma in questo senso vanno anche notati i suoi limiti. La schematicità dell'impianto, appunto, narrativo. La convenzione datata di certi procedimenti che servono a far proseguire l'azione, a spiegare ciò che potremmo intuire. Un lato polveroso, anche se perfetto accademicamente, che fa dire agli spettatori più esigenti: ben fatto, ma il libro era di tutt'altro approfondimento. Sennonché. Sennonché La mia Africa non è soltanto un racconto. E Sidney Pollack non è soltanto un illustratore. Piuttosto, termine ormai abusato, un autore. Che il rimbambimento espressivo, il calabrache economico del cinema americano di questi anni non ha distrutto completamente. Osservare quelli che sono forse soltanto i resti di una intuizione artistica geniale, fra le pieghe del racconto talvolta convenzionale costituisce un'esperienza altrettanto commovente di quella compiuta da Meryl Streep rievocando il destino di Karen Blixen.

C'è un istante sublime del film, uno di quei momenti che rimangono nella memoria di coloro che amano il cinema. Meryl Streep, vestita di nero nella prateria africana, attende ai bordi della fossa che il corteo dolente gli porti l'amante scomparso. È la fine del film, la fine dell'esperienza africana della Blixen, il ritorno in Europa dopo il fallimento della sua piantagione di caffè. La donna volge un'ultima volta lo sguardo sulle colline che la circondano: ed al culmine di una di esse, spettatore immobile ed inatteso, si staglia un Masai. Uno degli indigeni non ancora colonizzati, uno di quegli elementi puri, intoccati dalla civiltà dei bianchi, ai quali i protagonisti del film avevano accennato, ma dei quali la cinepresa non era mai riuscita a cogliere, se non l'ombra fugace, o l'eco leggera in lontananza.

Per uno di quei segreti che alimentano la creazione artistica, il Masai immobile di La mia Africa ci riconduce allora ad un altro selvaggio immobile, il pellerossa del capolavoro di Pollack, Jeremiah Johnson. E il discorso, che tra le pieghe dell'aneddoto il regista stava conducendo, si spiega alfine in tutto il suo splendore: non esiste una fuga da certi conflitti che la società si è creata né, tantomeno, una natura riparatrice, una dimensione utopisticamente perfetta nella quale questi conflitti possano venire risolti. È in se stesso, in una lotta ancora più dura da svolgere contro certi retaggi trasmessi da sempre, che l'uomo deve risolvere i propri problemi.

Il commento di oltre dieci anni fa, mi si perdoni l'auto-citazione, a Jeremiah Johnson, calza alla perfezione per l'ultima fatica di Sidney Pollack. Certo, Corvo rosso non avrai il mio scalpo (orribile traduzione del titolo originale) era un'opera più metafisica, più filosofica, meno legata all'aneddoto, forse alla preoccupazione attuale di dover commuovere, convincere e far soldi che è quella di La mia Africa.

Ma fin dalle prime immagini del film, l'arrivo nella dimensione africana, tutti coloro che hanno amato il cinema di Pollack avranno ritrovato la sua "fisicità", quel suo modo incredibilmente genuino quasi fiahertiano, di filmare gli elementi naturali, l'acqua, il fuoco, la terra. Di ritmare il tempo, anche cinematografico, sull'avvicendamento cosmico delle albe e dei tramonti. E di inserire, in questo contesto naturale, l'uomo. Nei momenti migliori del cinema di Pollack la rappresentazione dell'uomo nella natura coincide con la pienezza psicologica e morale del protagonista: e la rottura di questo equilibrio all'interno dei personaggi si traduce in un disagio, talora in un conflitto fra uomo e ambiente. La degradazione di questo, la constatazione di questa degradazione, è vissuta dall'eroe di Pollack come presa di coscienza dei propri limiti. E, quindi, come possibilità di ascesa, di superamento.

L'itinerario morale della scrittrice, l'esperienza sentimentale e sociale della donna protagonista si traducono, nel film di Pollack, con il travaglio dell'inserimento di una "civiltà" in una cultura incontaminata. E una coincidenza che trasforma un racconto altrimenti convenzionale in una riflessione filosofica e poetica.


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